lunedì 23 settembre 2013

Il trionfo di Angela Merkel

Il popolo tedesco ha decretato il suo verdetto: Una vittoria schiacciante per la cancelliera Merkel e il CDU che toccano il 41,5% dei voti. E' un risultato storico.
Alcune sorprese, però, arrivano dalle urne: Fdp, i liberali e storici alleati della Merkel, restano fuori dal Bundestag non riuscendo a superare lo sbarramento (5%); 
L'Spd, secondo partito all'interno del parlamento, arriva al 25,7%, seguito dall'estrema sinistra di Die Linke (8,6%) e il Partito dei Verdi (8,4%).
Angela Merkel
Restano fuori dal Parlamento anche il partito euroscettico della Afd (4,7%) e il partito dei Pirati (2,2%).

La Merkel può quindi festeggiare per il grande successo: la cancelliera tedesca è stata infatti la prima ad essere rieletta in Europa in questo periodo di crisi (a differenza di quanto successo in Spagna, Francia, Italia..), forse anche grazie alle politiche che consentono alla Germania di sentire meno la crisi rispetto ad altri paesi del vecchio continente.
"Risultato formidabile" festeggia la Merkel, "adesso voglio maggioranze stabili".
Proprio attorno alla formazione del nuovo governo gravitano i dubbi: l'opzione più probabile è quella di ricorrere alla Gross Koalition tra CDU e Spd. Più difficile ma non da escludere l'alleanza tra CDU e Verdi.
Vedremo nelle prossime settimane.

Questi elezioni sono state importanti e interessanti non soltanto per i cittadini tedeschi, ma anche per quelli degli altri paesi europei. Da anni oramai la Germania traccia la linea politica ed economica dell'intero continente, dettando regole e vincoli e influenzando inevitabilmente la vita di tutti quanti vivono nell'Unione Europea. In molti speravano che la cancelliera venisse scalzata dal suo ruolo; altri invece auspicavano una sua rielezione. Non so quale delle due possibilità avrebbe fatto il bene dell'Italia e dei paesi in difficoltà, ma so per certo che quanti pensano che, dopo la rielezione, la Merkel sarà più clemente si sbagliano. La Germania continuerà a fare ciò che ha fatto negli ultimi anni, battendo sul tavolo europeo il pugno duro del suo leader.

venerdì 21 giugno 2013

La rivolta brasiliana

In Brasile, mentre si sta svolgendo la Confederations Cup, si stanno susseguendo ondate di proteste e manifestazioni dei cittadini contro il governo di Dilma Rousseff, reo secondo i rivoltosi di aver speso più di quanto previsto per l'ammodernamento degli impianti sportivi in vista del Mondiale 2014.
Oltre cento città sono state investite da queste mobilitazioni popolari. Circa cinquecentomila persone sono scese in piazza per dire no alla corruzione dei partiti politici e allo scialacquamento dei soldi pubblici. Ci sono state manifestazioni a Rio de Janeiro, Brasilia, Salvador, Belem, Porto Alegre, Campinas e molte altre.
Questa protesta è la prima di consistenti dimensioni dopo quella del 1984, quando il movimento "Diretas Ja" mobilitò milioni di persone contro la dittatura militare.

I mass media locali riferiscono che la protesta sia stata innescata dall'aumento dei prezzi dei trasporti pubblici a San paolo. E questo basta per creare un tale moto di manifestazione?
Probabilmente c'è altro.
Innanzitutto, dobbiamo sottolineare il fatto che la protesta non è portata avanti solo dalle classi povere ma anche, e soprattutto, da giovani della emergente classe media, a dimostrazione che il solo rincaro dei prezzi dei trasporti non può bastare come spiegazione.

Molto probabilmente il popolo brasiliano, adesso in espansione e crescita economica, non ha dimenticato le difficoltà, i problemi, i periodi trascorsi nella povertà e nella dittatura.
Proprio questa "memoria comune" ha fatto acquisire ai cittadini un senso di responsabilità che, evidentemente, non è arrivato ai politici. I brasiliani non vogliono compromettere il benessere raggiunto con una inutile crescita, contrassegnata da investimenti colossali, indebitamento prima pubblico e poi privato.
Il paese vive in una situazione di ingabbiamento: in parte è già pronto ad affacciarsi tra i paesi del primo mondo, mentre i retaggi e le strutture rimangono da terzo mondo.
I brasiliani, forse, hanno capito che non è attraverso il tipo di investimenti portati avanti dal governo che si cresce e si insegue il benessere. Si deve investire sull'educazione, sulla cultura e sulla sanità, puntando sulla democrazia, sulla libertà e l'uguaglianza. Soltanto cosi si può pensare di raggiungere il livello di alcune grandi nazioni europee e americane.
Certe volte anche "sacrificando" la grande passione per il futebol.

giovedì 20 giugno 2013

Il collasso del sistema univeristario spagnolo

Che con la crisi economica la Spagna non navigasse in acque tranquille lo si sapeva da tempo. Che in momenti di crisi una delle prime cose tagliate sia la cultura, è anch'essa una cosa nota. E' proprio ciò che sta avvenendo in Spagna in questi giorni.
Proprio negli ultimi giorni rimbalza sui mass media la notizia che il sistema universitario spagnolo stia velocemente andando verso il collasso, provocando le reazioni di migliaia di studenti.
Con poche e semplici operazioni il governo Rajoy sta "sfrattando" gli studenti spagnoli dalle proprie università. Moltissimi iscritti, infatti, si trovano in una situazione di difficoltà e incapacità di pagare le tasse universitarie.
I provvedimenti "incriminati" sono: tagli all'educazione, aumento delle tasse, inasprimento dei requisiti accademici e riduzione delle borse di studio.
Sono circa 30.000 gli studenti che rischiano di dover abbandonare la propria università per insolvenza: alla Politécnica di Madrid sono circa 1530 gli alunni morosi; le università andaluse ne contano 5700; Valencia 656 e Oviedo un migliaio.

Sono nati quindi dei gruppi di protesta a Madrid, Barcellona, Siviglia e Bilbao.
La PAT (piattaforma delle vittime delle tasse) sta portando avanti una campagna con l'obiettivo di avviare lezioni virtuoli per gli alunni espulsi dall'ateneo.
Alcune università hanno invece deciso di attivare dei fondi sociali in favore degli studenti in difficoltà.
In situazioni simili si trova anche il sistema dei docenti, sempre meno incline ad assumere nuovi professori e tendente a licenziare i già assunti.

Una situazione davvero grave, che potrebbe portare, se il fenomeno dovesse estendersi per dimensioni, ad una vera e propria rivolta da parte degli studenti, i quali si sentono defraudati della possibilità di studiare e crescere all'interno delle loro università.
Come possiamo vedere, tutto il mondo è paese: in periodi di crisi, anziché investire sulla cultura, la formazione, l'insegnamento e la conoscenza, si preferisce tagliare le spese. Senza capire che soltanto intorno alla cultura si può ricreare una situazione di benessere e rialzarci da una crisi gravissima...purtroppo non soltanto economica.

lunedì 3 giugno 2013

La protesta di Piazza Taksim è molto altro..

Televisioni e giornali continuano ormai da giorni a raccontare ciò che sta avvenendo a Istanbul tra manifestanti e forze dell'ordine, interpretando i disordini, gli scontri e le masse che manifestano, come una rappresentazione dello spirito "verde" dei turchi. La realtà, però, non è cosi semplice.
La protesta di molti (ricordiamo che è una parte della popolazione) in difesa di Gezi Parki, uno dei parchi più antichi e belli della città, è si un motivo di mobilitazione valido ma da solo non basta a spiegare né l'attivismo delle persone né tantomeno la forza della repressione di questa protesta.
Il progetto di distruggere Gezi parki è soltanto la goccia che ha fatto traboccare il vaso, già colmo, della popolazione di Istanbul. E' l'ennesima azione del capo di governo Erdogan "contro" i cittadini.
Venerdi 31 maggio sono stati stimati cinquantamila manifestanti nella zona di Piazza Taksim, contro i quali la polizia ha risposto con cariche, idranti e lacrimogeni. Sono state decine le persone ferite in nome di una repressione inaudita quanto inutile data la natura pacifica della protesta. Secondo i dati del Ministro degli Interni Muammer Guler, la polizia turca ha arrestato in pochi giorni 1700 persone.
Il moto di protesta che ha colpito Istanbul però non si ferma. Si sta allargando, espandendosi anche in altre città della Turchia, dove ci sono state negli ultimi quattro giorni circa 235 manifestazioni.

Stavamo appunto dicendo che quella di Gezi Parki è soltanto l'ultima manovra sbagliata da Erdogan nei confronti dei cittadini, allora cos'altro viene imputato al leader turco?
Iniziamo col dire che Erdogan è a capo di un governo guidato dall' AKP, partito filo islamico per la giustizia e la libertà, al potere dal 2002. Ha ottenuto un grande successo alle elezioni e per questo ho sottolineato più volte che la protesta, e quindi il malcontento, nei suoi confronti è radicato comunque nella minoranza della popolazione.
Secondo la parte manifestante del popolo Erdogan si sarebbe "macchiato" di una serie di leggi e divieti non apprezzate dai turchi, quale per esempio il divieto di consumo di alcool, ma soprattutto sarebbe colpevole di aver proposto e approvato misure tese a snaturare sempre più l'impostazione laica data alla Turchia dal padre della patria Mustafa Ataturk.

Per una minoranza che la pensa cosi, esiste però un'altra parte di popolazione che la pensa differentemente e quindi risulta difficile capire, senza toccare con mano ciò che sta realmente accadendo ed è accaduto nel passato a noi più vicino, dove si trovi la verità. Certo è che la polizia sta reagendo in modo davvero spropositato nei confronti dei manifestanti, i quali rispondono, tra le altre cose, con la protesta delle pentole e urlando a squarciagola: "Erdogan dimettiti".

mercoledì 22 maggio 2013

Stoccolma sotto shock

Da giorni la capitale svedese si trova in emergenza per il crescente moto di protesta che ha coinvolto giovani, immigrati e forze dell'ordine. Sono decine le automobili bruciate e le proprietà danneggiate.
La causa principale che ha scatenato la rivolta sembra essere l'uccisione da parte della polizia di un sessantanovenne armato di machete nel sobborgo di Husby.
Husby è un quartiere povero di Stoccolma, caratterizzato da un elevato tasso di immigrazione e abitato in prevalenza da turchi e somali.
Da domenica scorsa, qualche giorno dopo l'uccisione dell'uomo, la città è stata messa a ferro e fuoco da questa ondata di delinquenza e inciviltà, contro la quale la polizia è stata costretta a rispondere in modo duro.
Nei confronti delle forze dell'ordine è stata mossa allora la critica di brutalità e razzismo.

Molti, guardando i fatti che stanno accadendo nel paese, sostengono che questa sia la normale conseguenza di un sistema di welfare state ormai in crisi a causa dell'invecchiamento della popolazione, le ondate migratorie  e un meccanismo di sussidi ormai insostenibile.
Ad avvalorare questa tesi c'è chi afferma che gli immigrati formino ad oggi il 15% della popolazione svedese e che il 30% dei giovani residenti nei sobborghi non lavora e non studia.
I sobborghi poveri di Stoccolma sarebbero quindi in una condizione gravissima, completamente separati dal centro della città e soggetti a maggiore segregazione.

D'altro canto, però, il portavoce della polizia, Kjell Lindgrean, ha riferito ai media locali che i rivoltosi non sono un gruppo ben definibile, bensi si tratterebbe di un insieme eterogeneo di soggetti (giovanissimi, trentenni, stranieri, svedesi) che sta prendendo al balzo l'occasione per compiere atti di inciviltà e vandalismo.

La mia opinione, per quel che può contare, è che la verità sta nel mezzo: è senza dubbio vero che la Svezia in generale, e Stoccolma in particolare, fa dell'accoglienza, dell'integrazione, dell'efficienza del welfare state, dei servizi il proprio punto di forza. Circa un mese fa ho avuto la fortuna di visitare Stoccolma ed ho potuto toccare con mano lo stato di benessere dei cittadini e l'efficienza delle strutture svedesi.
E' allo stesso modo certo, però, che una parte degli immigrati, specialmente coloro che abitano nei sobborghi poveri, si trovino in una situazione disagiata e difficile, dovuta al fatto di trovarsi in un paese straniero, costretti a confrontarsi con una lingua che non è la loro, e con una grave e perdurante situazione economica a livello europeo (e quindi anche svedese, seppur meno grave che in altre realtà del vecchio continente).
In questi giorni ho sentito molto dibattere sulla posizione da prendere nei confronti dell'immigrazione e dell'integrazione. Anche in questo caso, spesso, sento estremizzazioni: c'è chi ritiene giusto aprire i confini di Stato a tutti, senza limiti né regole. C'è invece chi, al contrario, opterebbe volentieri per bloccare il flusso in ingresso di persone provenienti da Asia e Africa.
Credo che il fenomeno immigrazione sia oggi, e sarà domani, un punto centrale delle politiche e dell'azione dei governi nazionali e internazionali. Se è troppo facile sostenere che molti dei problemi che segnano la vita dei nostri paesi sono dovuti agli immigrati, è altrettanto sbagliato e soprattutto controproducente non mettere barriere, limiti e codici di comportamento all'ingresso di queste minoranze nei nostri confini. Per alcuni stranieri che commettono reati nei nostri paesi, infatti, ce ne sono moltissimi che lavorano, studiano e cercano di integrarsi; e questi ultimi devono godere della possibilità di venire, vivere e crescere nel nostro paese.
La vera sfida dell'Europa nel prossimo futuro ritengo sarà non tanto combattere la crisi economico-finanziaria quanto riuscire a gestire il problema di minoranze (in crescita) non integrate senza sfociare in guerre civili. Si stanno mescolando culture, costumi, religioni, aspettative e bisogni troppo diversi tra loro, senza creare le giuste condizioni perché questo possa avvenire senza scontri e insofferenza.
L'integrazione è un processo molto lungo e difficile che ha inizio soltanto nel momento in cui l'accettazione dei propri doveri è un passo avanti rispetto alla pretesa dei propri diritti.

domenica 21 aprile 2013

Napolitano II

Per la prima volta nella storia della Repubblica Italiana un presidente è stato rieletto. Giorgio Napolitano, all'età di 87 anni, è stato rieletto al Colle con 738 voti.
Sono stati giorni convulsi quelli che hanno preceduto l'elezione del Capo dello Stato; la politica italiana si è trovata di fronte all'incapacità di nominare un volto nuovo che mettesse tutti d'accordo; l'Italia intera si è resa conto che la classe politica sempre meno rispecchia il volere del popolo e sempre più è espressione di una casta interessata solamente a mantenere la poltrona su cui siede.
Il primo nome fatto, proposto dal Partito Democratico, è stato quello di Franco Marini, frutto di un accordo tra lo stesso Pd e il Popolo della Libertà. Ma niente, le divisioni all'interno del Parlamento non hanno permesso la sua elezione.
Il giorno dopo è stato il turno di Romano Prodi, mentre il Movimento5Stelle appoggiava la candidatura del giurista Stefano Rodotà (nome uscito dalle Quirinarie fatte sul sito del movimento di Grillo). Prodi sembrava essere il nome giusto per poter unire un partito spaccato, il Pd, e poter superare finalmente l'impasse politica che da troppo tempo non ci permette di affrontare i gravi temi che attanagliano i cittadini. Cosi però non è stato. In sede di votazione, una parte del Partito Democratico (101 franchi tiratori) hanno voltato le spalle e votato diversamente, portando cosi alle dimissioni dell'intera segreteria del partito.

A quel punto la situazione a Montecitorio è precipitata mentre nelle piazze scoppiava il malcontento di un popolo non ascoltato.

Cosi Pd e Pdl hanno trovato in Giorgio Napolitano la figura che permetteva di risolvere la situazione di stallo; una situazione di stallo che ancora una volta dimostra quanto sia difficile in Italia prendersi le proprie responsabilità, voltare pagina, cambiare e rinnovarsi.
Napolitano si è cosi trovato "costretto" ad accettare l'incarico e farsi carico del difficile compito di formare velocemente un governo in grado di adempiere ai suoi doveri e portare il Paese fuori dalla crisi. Vedremo cosa deciderà di fare il Capo dello Stato, a chi affidare il governo, quali attori politici (o non politici) coinvolgere. La strada più probabile sembra quella di un governo di larghe intese anche se rimane aperta la spinosa questione di un Partito Democratico diviso all'interno e senza un certo futuro.

martedì 16 aprile 2013

Elezioni politiche...50 giorni dopo

Quelle passate si erano presentate agli italiani come le elezioni dell'urgenza: urgenza di cambiare e agire velocemente per il bene del Paese.
Sono passati oramai 50 giorni dallo scrutinio e ancora tracce di un governo all'orizzonte non ce ne sono.
I numeri purtroppo non davano la maggioranza assoluta a nessun partito ma si poteva e si doveva comportarsi in modo diverso. Da 50 giorni (ripeto di proposito i giorni per sottolineare la gravità) i cittadini aspettano che nasca un nuovo governo che ridia speranza e forza ad un popolo che oramai ha smarrito la strada per la felicità e il benessere.
A questo punto, credo, alla gente importi poco se il governo lo formano Bersani e M5S, oppure Bersani e Berlusconi o altri soggetti politici; il punto essenziale è che l'Italia abbia un governo, un buon governo, che prenda dei provvedimenti su questioni importanti e che dia una svolta a questa situazione che da troppo perdura.
I voti degli italiani hanno dato vita ad una situazione di stallo in cui c'era bisogno di sedersi ad un tavolo tra due o più parti (ad esempio Pd e M5S) per trovare dei punti di contatto, delle questioni sulle quali si potesse andare d'accordo in modo da formare il governo. Il movimento di grillo però non era disposto a dare la fiducia al buio a nessun governo; d'altro canto Bersani è rimasto fermo sulle sue posizioni.
Forse Bersani doveva agire in modo differente? Forse avrebbe dovuto lasciare il posto a qualcun altro dopo i rifiuti e gli sberleffi dei grillini? Forse dovrebbe cercare un accordo con il Pdl? Forse il M5S, alla luce del successo elettorale avuto, dovrebbe farsi carico di più responsabilità? Questo io non so dirlo ma il risultato dell'incapacità della classe politica di fare il bene dell'Italia è davanti agli occhi di tutti. Nessuno è capace (e volenteroso) di mettere da parte il proprio orgoglio, lasciare la poltrona sulla quale da anni sta ammuffendo, e pensare alla povera gente che fuori da Montecitorio soffre, aspetta risposte e fatti concreti.
Tra qualche giorno ci sarà l'elezione del Presidente della Repubblica e speriamo che poi qualcosa si muova in tal senso. Intanto, ciò che possiamo dire, è che per certi versi abbiamo perso tutti.

lunedì 18 febbraio 2013

A pochi giorni dalle elezioni e il malcontento del Paese

Tangentopoli, la crisi dei partiti, la fine della prima Repubblica ci hanno fatto disinnamorare della politica e dei rappresentanti dello Stato. Oggi più che mai l'Italia si trova di fronte ad un bivio simile a quello dei primi anni '90, costretta tra l'esigenza di cambiare e l'impossibilità di dare fiducia a soggetti politici che da vent'anni continuano a deluderci e prenderci in giro.
Non v'è dubbio occorra una grande volontà per credere (ancora) alle parole di cambiamento, alle proposte e agli slogan dei più vari attori di una politica, anno dopo anno, sempre più malata.
In molti, io per primo, credevano e speravano che la fine del governo tecnico presieduto da Mario Monti avrebbe portato qualcosa di nuovo, qualcosa di buono in questo paese ormai dilaniato dalla crisi, dalle tasse, dalla disoccupazione (giovanile e non). Invece ci siamo trovati di fronte alla solita campagna elettorale acchiappa-voto fatta soltanto di battute ad effetto, trovate propagandistiche, tentativi di sottrarre credibilità agli avversari, senza renderci conto che tutto questo non faceva altro che togliere credibilità alla politica, alle istituzioni dello Stato; senza renderci conto che tutto questo non faceva altro che togliere speranza alle persone (oltre che pazienza).
Rabbrividisco, e come me spero molti elettori italiani, di fronte all'incapacità della "casta" di parlare di problemi concreti, di andare al di là delle banalità, di proporre soluzioni reali e rapide.  
Mi stupisco (e in fondo non capisco perché lo continuo a fare) che i soliti personaggi, da Berlusconi a Bersani passando per Brunetta e D'Alema, riescano a catturare migliaia di voti, riescano a prendere per il naso buona parte dell'Italia dopo anni e anni di immobilismo e fannullonismo.
Questi ultimi vent'anni (alcuni li chiamano berlusconismo, ma io non voglio far distinzione tra destra e sinistra, almeno in questo pezzo) ci lasciano un'eredità pesante, pesantissima: Ci lasciano debiti, crisi di lavoro, sfottò da parte degli altri paesi, incapacità di stare in un'Europa che ogni giorno ci chiede di riparare al debito pubblico, mettendoci quindi su di un piano inferiore rispetto a paesi quali Germania e Francia per esempio, esodati, processi mai chiusi, bunga bunga ecc.. 
Questi vent'anni ricadono anche sui giovani (ahimé sulla mia generazione) e su quella dei nostri figli se non capiamo (ma soprattutto la classe politica) che è arrivato il momento di interrompere questo trend, di cambiare la rotta...questa volta per davvero.
Un tempo il paese era spaccato in due: c'erà il centro-nord più ricco e il centro-sud che stentava perché lasciato da solo a combattere contro Mafia, Camorra e problemi strutturali; oggi la situazione è cambiata: il paese è sempre diviso in due ma la divisione non è più territoriale; la separazione di oggi si ha tra politici e cittadini. Il popolo italiano tutto si è impoverito, al sud come al nord. Non è più accettabile vedere persone distrutte nella loro dignità dalla mancanza di lavoro, dalle tasse, dagli stenti mentre un'altra Italia (quella dei politici appunto) continua a fare la bella vita tra vitalizi, auto blu, privilegi, stipendi altissimi e pensioni con chissà quanti zero.
Siamo oramai (e per fortuna) giunti a pochi giorni dalle elezioni politiche, vedremo chi la spunterà e soprattutto come la spunterà (importante perché l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è trovarci in un impasse politica). Non mi meraviglierei se alla fine di questa grande buffonata chiamata campagna elettorale ci fosse un risultato sorprendente del M5S di Beppe Grillo, forse l'unico in grado di incarnare il malcontento generalizzato tra gli italiani.
D'altro canto, non mi sorprenderei neanche di vedere grandi risultati da parte di altri schieramenti politici dati da tempo per morti e privi di una qualsiasi presentabilità; da vent'anni c'è qualcuno che li vota e forse quel qualcuno ci cadrà...ancora una volta.